Le parole del comune in salute – Parte II

Quale tecnica per quale paradigma di salute?

Non c’è dubbio sul fatto che, nella visione medicalizzante e capitalista della salute che oggi risulta dominante, un miglioramento delle condizioni di benessere viene identificato con più ospedali di eccellenza, biotecnologie sempre più sofisticate, ricerca farmacologica avanzata, medicina personalizzata. Tuttavia, questo sposta ulteriormente l’attenzione e gli investimenti da quei fattori che, a monte, condizionano buona parte delle nostre possibilità di vita in salute – i determinanti di salute –  e sono legati alle forme di organizzazione che le società si danno e, dunque, alla questione dell’equità e della giustizia sociale. Inoltre, sviluppo e produzione tecnologica sono in stretta relazione con il modo di produzione capitalista, non sostenibile dal punto di vista ambientale e connesso a crescenti fenomeni di disuguaglianza ed esclusione, non solo nei Paesi a basso reddito – si pensi alla mancanza di cure oncologiche per la maggior parte della popolazione mondiale – ma sempre più anche nelle nostre società, come dimostra il recente caso dei nuovi farmaci per l’epatite C1. Infine, dipendere dal settore privato per la produzione degli strumenti della cura genera pericolosi conflitti di interesse ed è stato ampiamente dimostrato che più cure non generino necessariamente più salute, ma quasi sempre più profitto.

Oltre alle considerazioni macro, parlare di tecnica o tecnologie e salute risulta complesso anche in relazione ai vissuti delle persone e alla relazione di cura. In primo luogo, per come si interseca con la questione del sapere esperto che tentiamo di rimettere in discussione, in secondo luogo, perché le tecnologie che utilizziamo sono strettamente connesse al paradigma di salute che costruiamo, e plasmano gli immaginari di malattia e di cura. Se la malattia è qualcosa di confinato al corpo e all’organo, solo la tecnica per esplorare il corpo e l’organo darà risposte pertinenti, viceversa, proprio l’esistenza di quella tecnica contribuisce a rafforzare l’esclusione di altre variabili, che essa non arriva a indagare. L’antropologia suggerisce di non separare gli immaginari (la mente) dal corpo che li vive, pertanto la nostra “dipendenza dalla tecnica” è un fatto oggettivo, a prescindere dalle considerazioni sull’utilità o meno della tecnica in questione. Si può dire quindi che nessuna tecnica è neutra, perché entra nei modi di organizzazione, rappresentazione e produzione del reale.

Gli interrogativi da porsi se si intende lavorare a una trasformazione dell’approccio alla salute, sia dall’interno delle istituzioni sanitarie sia tramite esperienze di salute dal basso, sono dunque di tre ordini.

1) È possibile separare la tecnica (medica) dal modello di produzione chiamato in causa tanto nella generazione delle disuguaglianze (sociali, di salute così come di accesso alla stessa tecnica), quanto nella compromissione della sostenibilità del pianeta?

2) Mettendo in discussione gli immaginari (incorporati) legati a un approccio alla malattia iperspecializzato e altamente tecnologizzato (che si traduce anche in un sistema oppressivo di controllo sui corpi), vogliamo escludere completamente tale approccio dalle pratiche di salute, nonostante il comprovato beneficio di alcuni dispositivi tecnologici (per esempio, i farmaci essenziali)?

3) Chi e come – e con quale livello di democrazia – può discernere le tecnologie che portano un beneficio? È possibile pensarne una gestione collettiva (dalla ricerca alla produzione)? E ancora, quando parliamo di beneficio, cosa intendiamo esattamente?

Efficacia

Porsi questa domanda, chiedersi cosa intendiamo con beneficio, implica anche chiedersi come possiamo valutare i risultati di un intervento in salute, e questo non è solo un esercizio astratto ma è anche un modo per orientare le nostre pratiche di salute collettiva. Ci preme pertanto partire dall’idea di efficacia oggi dominante all’interno delle istituzioni sanitarie per provare a sovvertirla, tentando di risignificare il concetto di beneficio in termini di salute.

All’interno delle istituzioni pubbliche si parla oggi più che altro del concetto di efficienza accompagnato da altri concetti quali quello dell’economicità e quello della appropriatezza. Questa terminologia e i parametri a cui fa riferimento derivano e rimandano a una impostazione aziendalista e ottimizzatrice che allo stato attuale caratterizza sempre di più anche il sistema sanitario pubblico.

Accanto a questo concetto di efficienza viene spesso posto quello che potremmo definire di efficacia tecnica, ovvero la capacità di produrre effetti in termini di guarigione da processi patologici e di prolungamento della sopravvivenza. Questo approccio implica che vengano considerati solo alcuni parametri legati ad aspetti misurabili e ritenuti oggettivi (come per esempio il tasso di sopravvivenza) e siano esclusi altri difficilmente quantificabili (come gli aspetti legati alla qualità della vita), riproducendo un binarismo irrealistico tra sano e malato che rafforza dinamiche di esclusione e controllo dei corpi. Un approccio del genere, inoltre, considera solamente gli aspetti biologici della salute e della malattia, occultando di fatto la dimensione simbolica e le condizioni strutturali che le producono.

Nell’immaginare nuove pratiche di salute risulta quindi particolarmente importante essere capaci di costruire anche modi differenti per guardare ai risultati dei processi che generiamo. È in questo senso che abbiamo provato ad interrogarci sulla possibilità di ridefinire il concetto di efficacia o di connotarlo, in modo che tenga conto della molteplicità dei processi di produzione collettiva della salute. La discussione su come rendere questo elemento da un punto di vista lessicale è ancora aperta, pertanto vorremmo servirci di un esempio per evidenziare le diverse sfaccettature: dal punto di vista “biomedico”, l’efficacia di un intervento su una persona ammalata di tubercolosi potrebbe coincidere con l’efficacia della cura farmacologica, nonostante tale intervento non possa considerarsi risolutivo sulle cause di contesto che hanno contribuito a produrre questa condizione. Come possiamo però definire l’incisività di una pratica di salute che agisca contemporaneamente aumentando la consapevolezza dell’individuo e intervenendo sui determinanti sociali di salute? Abbiamo ipotizzato di chiamarla efficacia biopolitica per provare a riconoscerle anche la capacità di soggettivazione e di trasformazione complessiva.

Il nodo della sostenibilità

Un altro interrogativo importante, che attraversa tanto le esperienze di autogestione in salute quanto le sperimentazioni alternative che si muovono all’interno del sistema sanitario pubblico, è quello della sostenibilità.

Sostenibilità, soprattutto in riferimento al welfare, è un termine ambiguo e scivoloso. È infatti proprio in riferimento alla “(in)sostenibilità del sistema” che oggi le istituzioni giustificano lo smantellamento progressivo dei servizi pubblici. La sostenibilità, in questo senso, è declinata solo in termini economicistici e l’unico parametro tenuto in considerazione è quello della spesa sanitaria; ogni altra dimensione al di fuori di quella economica scompare dalle valutazioni.

Tuttavia, quello della sostenibilità è anche un nodo con cui le esperienze di produzione di salute dal basso fanno costantemente i conti. In questo caso la sostenibilità ha a che fare con l’accessibilità e attraversabilità delle esperienze, il loro impatto sul territorio, e la loro possibilità di sopravvivenza nel sistema capitalista.

Per articolare la questione possiamo parlare di sostenibilità delle esperienze del comune in salute considerando sia il livello materiale sia quello immateriale, sul piano personale e collettivo.

Dal punto di vista materiale, con quali risorse si sostengono le esperienze? È possibile immaginare forme di sostentamento collettive e individuali in grado di dare stabilità e continuità alle attività messe in atto dalle varie realtà? Molte esperienze di attivismo e autorganizzazione creano forme di reddito diretto e/o indiretto, si interrogano su come sia possibile costruire sostenibilità economica facendo dell’attivismo una scelta di vita, mettono in atto pratiche di redistribuzione, di economia alternativa e/o di neomutualismo. Qual è l’impatto che queste nuove forme di sostenibilità generate possono avere in termini di accessibilità ed equità? Verso quali cambiamenti strutturali tendono?

Alle questioni materiali va aggiunta poi una riflessione su quella che è la sostenibilità umana delle realtà e delle persone coinvolte in questi percorsi. Questa seconda dimensione della sostenibilità rimanda alle forme organizzative che le esperienze autogestite adottano  per la gestione del potere decisionale, la divisione delle responsabilità e dei compiti, unitamente al livello di coinvolgimento personale e relazionale. Spesso si creano dinamiche di autosfruttamento che portano a malessere e frustrazione, generate dal modello organizzativo che si decide di adottare. Scostarsi da modelli organizzativi gerarchici per abbracciarne altri a maggiore livello di co-responsabilità implica la necessità di uno “spostamento”, anche personale, e una grande attenzione alla cura e alla riconfigurazione delle relazioni, per sperimentare forme organizzative nuove in grado di tenere insieme bisogni, aspettative, desideri e funzionamento.

C’è poi un ulteriore livello da prendere in considerazione, che possiamo definire di sostenibilità politica. Un tratto comune a molte esperienze di autogestione in salute è quello di cercare di tenere insieme l’azione sui micro-contesti, a partire dai bisogni/desideri di chi le attraversa e/o del territorio di cui sono parte, con l’azione su un piano più ampio di trasformazione politica. In questa tensione si convive con il duplice rischio di “schiacciare” l’esperienza sui bisogni/desideri delle persone che ne fanno (già) parte, oppure, al contrario, di costruire esperienze distanti da chi le abita.

In che modo possiamo costruire esperienze che “partendo da(l) sé” siano aperte a nuovi e diversi bisogni, mettendo in pratica un approccio che tenga conto dell’intersezione2 delle forme di oppressione? Di quali strumenti ci dotiamo per valutare le ricadute e l’impatto sul territorio delle esperienze di cui siamo parte, oltre a quello che hanno sulle nostre vite? Attraverso quali strategie possiamo moltiplicare e rafforzare le lotte, fuoriuscendo da confini geografici e paradigmi di appartenenza identitaria? Come si declinano nel concreto e come si organizzato reti di solidarietà e di alleanza tra esperienze?

Immaginari e processi istituenti

Immaginare nuove pratiche di salute è soprattutto immaginare nuove istituzioni della salute. Per quanto il termine “istituzione” abbia assunto spesso, nei contesti in cui ci muoviamo, una connotazione disciplinare, un’idea di controllo sociale e di standardizzazione dei corpi che rifiutiamo, ci sembra importante richiamare qui la riflessione sui processi istituenti e dunque guardare al concetto di istituzione con questa duplice accezione.

Se infatti quelle istituzioni dello Stato che abitualmente attraversiamo sono una forma sociale pre-stabilita che utilizza e costruisce un rigido sistema di norme e obblighi comportamentali (istituito, istituzionalizzato), proporre processi di produzione collettiva di saperi, reti di welfare dal basso e percorsi di cura co-costruiti significa guardare alle istituzioni come processi vivi, aperti e partecipati le cui pratiche sono costantemente in divenire piuttosto che date una volta per tutte. Possiamo quindi parlare di momenti istituenti, considerando l’istituente come un potere di creazione di nuovi immaginari in opposizione alla staticità delle istituzioni statali.

È soprattutto in ragione di questa riflessione che nasce la proposta di parlare di questo moltiplicarsi di pratiche alternative sulla salute non più (o non soltanto) come pratiche di autogestione, ma come pratiche del comune in salute per accogliere le potenzialità del processo istituente che possono avere nella misura in cui saranno capaci di dare valore politico a nuovi immaginari, sfuggendo allo stesso tempo ai meccanismi di cattura ed espropriazione del neoliberismo.

Note:

1AA.VV. Epatite C. Il diritto alla cura. Saluteinternazionale.info. Visitato il 06.06.2018

2L’intersezionalità è un approccio politico che nasce intorno agli anni Settanta dal movimento femminista delle donne nere negli Stati Uniti e dal movimento postcoloniale. Secondo questa visione, la (ri)produzione delle disuguaglianze sociali non è il frutto di una semplice sommatoria di diverse condizioni di oppressione (classe sociale, nazionalità, identità di genere e orientamento sessuale, status giuridico, dis/abilità, ecc.) ma emerge, a seconda del contesto, dall’intreccio di queste. La forza e l’originalità dell’approccio intersezionale risiede nel riuscire a tenere insieme la dimensione al tempo stesso strutturale e situata/contestuale dell’oppressione. Propone quindi di tenere sempre presente che: stesse categorie possono essere diverse e avere effetti diversi in contesti differenti; le forme di oppressione sono tutte connesse tra loro, se le isoliamo e agiamo solo su una di queste non avremo una comprensione accurata di come funzionano; agire solo per un obiettivo/contesto specifico non ci permette di vedere che questo può diventare a sua volta oppressivo per un altro contesto (Crenshaw, 1989; Collins, 2000; Hancock, 2007).